IL BERRETTO A SONAGLI
‘a nomme ‘e Dio 

regia Giuseppe Miale di Mauro
liberamente ispirato a “'A Birrita cu i ciancianeddi” di Luigi Pirandello
adattamento e traduzione Francesco Niccolini 

con Valentina Acca, Giuseppe Gaudino, Adriano Pantaleo e Mario Cangiano
una produzione NEST 

Il progetto
Con Il Berretto a Sonagli la Compagnia Nest vuole affrontare per la prima volta il teatro di Pirandello, confrontandosi con uno dei testi più popolari del drammaturgo siciliano, cercando di strapparlo allo stereotipo con il tentativo di restituire ai personaggi la forza terrena e popolare di quei “corpi in rivolta” tratteggiati dal grande drammaturgo siciliano. L’idea di partire dal testo originale in siciliano nasce dall’esigenza di scavare nella violenza beffarda della lingua dialettale per creare una sorta di spartito espressionista e tragicomico che ci parla dell’oggi attraverso una storia di sempre. È noto che il testo di Pirandello nasce dialettale (‘A birritta ccu ‘i ciancianeddi) per Angelo Musco, attore comico siciliano di grande successo che apportò dei tagli capocomicali al copione mai ripristinati da Pirandello nella versione italiana.

L’idea e la drammaturgia
«Pupi siamo. Lo spirito divino ci è entrato dentro e si è fatto pupo. Pupo io, pupi voi, pupi tutti. E ogni pupo vuole rispetto, non per quello che è ma per quello che si crede di essere e per la parte che sta recitando. Quella parte ti può fare schifo, al tuo pupo gli sputeresti pure in faccia, ma soltanto quando sei solo davanti a lui. Perché dagli altri non vuoi sputi: dagli altri esigi rispetto.»
Ecco la storia de 'A birritta ccu' i ciancianeddi, testo che Pirandello scrive prima in dialetto girgentino, e poi traduce in versione ridotta ed edulcorata in italiano. Storia feroce, come direbbe Visconti, ritratto di famiglia in un interno: Beatrice, una moglie scontenta, consapevole di essere tradita, sua madre, il fratello, una serva spaventata, una femmina di paese che tesse la trappola per cogliere in flagrante delitto il marito di Beatrice. Se questa fosse una storia a parti invertite, cioè se fosse un marito a volere cogliere la moglie in flagrante delitto, sarebbe una cosa da poco che si concluderebbe con un delitto d'onore. Ma non è questo il caso: a denunciare è una donna, che addirittura nella versione originale del testo, vuole il divorzio e gli alimenti, e lo fa contro la volontà di tutta la famiglia. Perché non si affronta a campo aperto il tradimento, e il proprio dolore lo si offre a Dio, altro che mettere in piazza il marito infedele. Ma non basta: qui il problema è reso più grave dall'identità del “becco” o, forse meglio, dal pupo del cornificato. Perché se c'è una moglie tradita, ben presto scopriamo che il tradimento avviene con una donna sposata, e quel che è peggio sposata con uno scrivano/filosofo: Ciampa, don Nociu nella versione siciliana. Che non ne vuol sapere di passare per becco. Così, quando scoppia la tragedia e la coppia di amanti è colta in trappola, si scatena di tutto pur di arginare lo scandalo. Tutti sono pronti a mentire, dal delegato Spanò che deve raccogliere la denuncia, alla madre e al fratello della sposa tradita, a Ciampa stesso: tutti pronti a chiudere entrambi gli occhi e fare finta di niente. Ma il prezzo da pagare per questa pace ricostruita è durissimo, feroce, cattivo.
'A Birritta è un testo che fa spavento: sa di violenza e d’ipocrisia, omertà e bigottismo. Il nome di Dio in questa casa viene usato sempre a sproposito, e serve a piegare la verità alle forme più false di perbenismo. Nella nostra Italietta bacchettona e provinciale, questa storia trae dal dialetto la sua più grande verità: la lingua italiana smorza i toni, rende tutto più ovattato. Il dialetto fa esplodere la cattiveria, l'odio e lo scherno. Per questo, quando ci siamo messi a riflette non abbiamo avuto nessun dubbio: era indispensabile ripartire dall'originale girgentino e non accontentarsi di adattarlo e tradurlo in italiano, ma in napoletano. Meglio se una lingua partenopea un po' invecchiata, non troppo moderna. Nessun ammiccamento né sconti, per una storia da poco, un rubinetto rotto che gocciola e che non ha bisogno di molto per mostrare gli scheletri che nasconde: un salotto, un piccolo mondo cattivo e pochi pupi, che un manipolo di attori si scambia e fa vivere dentro la loro banale tragedia da sottoscala ammuffito.

La messa in scena
C’è sempre un pizzico d’irresponsabilità quando si decide di affrontare Pirandello. Soprattutto quando si decide di farlo attraverso uno dei suoi testi più famosi: il berretto a sonagli. Perché questa storia è nell’immaginario collettivo e il pubblico non si lascia rubare volentieri il proprio immaginario. Noi, in un certo senso, proveremo a farlo. Proveremo a dare una lettura individuale al testo pirandelliano e partiremo proprio dal monologo di Ciampa in cui dichiara che siamo tutti pupi e a ognuno capita il pupo da rappresentare. Da qui la scelta di raccontare la storia del berretto a sonagli con soltanto uomini in scena che a turno indosseranno i panni dei pupi che gli capiteranno. Gli attori saranno cinque e interpreteranno due ruoli a testa, mentre tutti a turno reciteranno la parte di Ciampa. Questa idea nasce anche dal forte impatto misogino del testo pirandelliano, in cui c’è un annullamento del ruolo della donna che in questa versione sarà enfatizzato dall’assenza di attrici. In scena ci saranno cinque postazioni simili agli specchi di un camerino, in cui gli attori di volta in volta prenderanno le sembianze del proprio pupo da interpretare. Le postazioni saranno mobili e nell’avvicendarsi della storia si muoveranno per formare luoghi diversi atti a raccontare il testo pirandelliano. La Compagnia Nest creerà l’incontro di un gruppo di artisti per dar vita a qualcosa che un attimo prima non c’era. Che era nella testa del regista, degli attori, dello scenografo, della costumista, e che attraverso il lavoro delle prove diventerà materia teatrale.
Questo sarà il “nostro” berretto a sonagli che immaginiamo ma ancora non conosciamo.

Il pensiero di Pirandello
“Il Teatro non è archeologia. Il non rimettere le mani nelle opere antiche, per aggiornarle e renderle adatte a nuovo spettacolo, significa incuria, non già scrupolo degno di rispetto. Il Teatro vuole questi rimaneggiamenti, e se n’è giovato incessantemente, in tutte le epoche ch’era più vivo. Il testo resta integro per chi se lo vorrà rileggere in casa, per sua cultura; chi vorrà divertircisi, andrà a teatro, dove gli sarà ripresentato mondo di tutte le parti vizze, rinnovato nelle espressioni non più correnti, riadattato ai gusti dell’oggi. E perché questo è legittimo? Perché l’opera d’arte, in teatro, non è più il lavoro di uno scrittore, che si può sempre del resto in altro modo salvaguardare, ma un atto di vita da creare, momento per momento, sulla scena, col concorso del pubblico, che deve bearsene.” (Luigi Pirandello, in Storia del teatro italiano, a cura di Silvio d’Amico, 1936)