NEL TEMPO DEGLI DEI
Il calzolaio di Ulisse
di Marco Paolini e Francesco Niccolini
regia Gabriele Vacis
con Marco Paolini
e con Saba Anglana, Elisabetta Bosio, Vittorio Cerroni, Lorenzo Monguzzi, Elia Tapognani
musiche originali di Lorenzo Monguzzi con il contributo di Saba Anglana e Fabio Barovero
scenofonia, luminismi, stile Roberto Tarasco
aiuto regia Silvia Busato
luci Michele Mescalchin
fonica Piero Chinello
direzione tecnica Marco Busetto
prodotto da Michela Signori
produzione Jolefilm e Piccolo Teatro di Milano - Teatro d’Europa
Hanno collaborato alla produzione Estate Teatrale Veronese e Teatro Stabile di Bolzano
Grazie a Silvia Panichi, Donatella Puliga, Giorgio Testa, La Corte Ospitale
Il calzolaio di Ulisse
Era nata come Odissea tascabile, è cresciuta nel tempo, nei suoni e nello spazio: è diventata olimpica e quasi alpina. Perché Ulisse più lo conosci e più ti porta lontano: e la distanza (celeste e marina) è la condizione essenziale per comprenderlo e cantarlo. Perché di questo si tratta: un canto. Forse il canto. Antico di tremila anni, passato di bocca in bocca, e di anima in anima: il soul per eccellenza. Perché questa è la storia dell'Occidente, e tutto contiene: dal primo istante, quando nulla esisteva, e un giorno cominciò a esistere, a partire proprio da quelle misteriose, ambigue capricciosissime entità che questa storia muovono: gli dèi.
Ex guerriero ed eroe, ex aedo, Ulisse si è ridotto a calzolaio viandante, che da dieci anni cammina verso non si sa dove con un remo in spalla, secondo la profezia che il fantasma di Tiresia, l'indovino cieco, gli fa nel suo viaggio nell'aldilà, narrato del XI canto dell'Odissea.
Questo Ulisse pellegrino e invecchiato non ama svelare la propria identità e tesse parole simili al vero. Si nasconde, racconta balle, si inventa storie alle quali non solo finisce col credere, ma che diventano realtà e addirittura mito.
È partito all'alba che segue la gara dell'arco e la strage dei pretendenti: ha avuto solo il tempo di un lungo pianto liberatorio con il figlio Telemaco e una notte d'amore con Penelope, e subito riparte. Perché un destino già scritto e la volontà degli dèi gli hanno imposto di massacrare i 108 giovani principi achei, che gli hanno invaso la casa, insidiato la moglie, e le 12 ancelle che agli invasori si sono concesse.
Potrebbe dichiararsi innocente perché così gli hanno dettato gli dèi, che considerano quel sangue un rito sacrificale, ma Ulisse non ci sta. Impossibilitato a sottrarsi a quel destino di morte e violenza, e dopo essersi macchiato di quel sangue, ecco il colpo di scena: invece di godersi la vittoria con l'annessa protezione divina (Atena e Zeus sono al suo fianco a benedirlo prima, durante e dopo la strage), si autoinfligge la più dura delle punizioni e denuncia come crimine quello che gli dèi dell'Olimpo considerano un’ecatombe, cioè il più grande sacrificio che un essere umano possa loro offrire.
Così, dopo venti anni di assenza e disavventure, Ulisse si obbliga a un nuovo esilio. Rinuncia al governo, abbandona la moglie e il regno, riparte con Telemaco al suo fianco, che lo segue senza mai aprire bocca. Ma soprattutto Ulisse abbandona gli dèi che lo vorrebbero trionfante e immortale: si rivolta contro i loro capricci, la loro ambigua volontà e non ha paura di pagare il prezzo della propria scelta.
Questo e molto altro, sotto le mentite spoglie di un calzolaio – anzi, del calzolaio di Ulisse, uno straniero dai sandali sdruciti, indurito dagli anni, dall'età, dai viaggi e dai naufragi – racconta il protagonista ad un giovanissimo capraio incontrato apparentemente per caso.
Parlano lungo un sentiero in ripida ascesa, dove una fila infinita di uomini formica faticosamente arranca, trasportando – è proprio il caso di dirlo – ogni ben di Dio: perché quello è il sentiero che conduce fino allo Chalet Olimpo, dimora divina dove sono in corso i preparativi per una grande e misteriosa festa. Ma tutto questo, il calzolaio con il remo in spalla, lo deve ancora scoprire.
«Con quanti, ma soprattutto con quali dèi ha a che fare un uomo oggi? Non penso ovviamente alle solide convinzioni di un credente, ma al ragionevole dubbio di chi guardando al tempo in cui vive, pensa con stupore e disincanto alle possibilità di accelerazione proposte alla razza umana. Possibilità di lunga vita, possibilità di potenziamento mentale e fisico, possibilità di resistenza alle malattie, eccetera… Restare umani sembra uno slogan troppo semplice e riduttivo, troppo nostalgico e rassicurante quando diventare semi-dèi appare un traguardo possibile, almeno per la parte benestante del pianeta.
Ulisse per me è qualcuno che di dèi se ne intende e davanti alle sirene dell’immortalità sa trovare le ragioni per resistere.»
Marco Paolini
Per anni lui, per me, è stato l'uomo che pensa a testa bassa e poi trova le parole giuste: l'uomo del cavallo di Troia e della gara con l'arco, quello delle Sirene, Polifemo, Scilla, Cariddi. Poi, all'improvviso, è diventato l'uomo triste che piange sullo scoglio più isolato di isole da sogno, dove donne innamorate di lui gli hanno promesso l'immortalità e molto altro, pur di trattenerlo: ma la nostalgia di casa, la nostalgia della moglie e del figlio erano sempre più forti di ogni tentazione. Strano atteggiamento per un uomo che il mito ci ha consegnato come il simbolo di chi vuole superare ogni confine senza paura.
Poi un giorno è diventato qualcos'altro ancora: è accaduto quando io, Marco e Silvia Busato abbiamo letto ad alta voce la strage dei pretendenti e delle ancelle puttane. Lì è cambiato tutto e abbiamo dovuto ricominciare da zero: ci eravamo incagliati su un problema enorme. Come si fa a sposare il punto di vista di un assassino di quelle proporzioni? Inaspettatamente ci siamo trovati di fronte a un reduce di guerra che perde il controllo di sé e fa una strage, peggio del peggior marine psicopatico di ritorno dal Vietnam, dall'Afganistan o dall'Iraq. Perché di questo si tratta: un reduce che, in tempo di pace, applica le regole più feroci del campo di battaglia. La sua vendetta è smisurata. Non c'è dubbio che i principi achei siano sfrontati, arroganti, dei parassiti che assediano Penelope, minacciano Telemaco e divorano le ricchezze del palazzo, ma bastano questi crimini per fare a pezzi centoventi giovani uomini e donne?
Il giorno che ci siamo posti questo problema, e abbiamo cominciato a cercare la risposta, quel giorno lo spettacolo ha cominciato a esistere. Ma il nostro Ulisse ha smesso di assomigliare a qualunque antico e luminoso eroe: sporco di interiora e sangue, infangato, maleodorante, invecchiato, rugoso e sdrucito, in esilio per altri dieci anni in compagnia solo di un vecchio e inutile remo, abbiamo scoperto non l'ex guerriero, l'ex eroe, di sicuro il reduce del campo di battaglia ma soprattutto un uomo, che - per l'ennesima volta da solo e contro gli dèi capricciosi e ostili anche quando sembra che stiano al tuo fianco - cerca di placare dèmoni vecchie nuovi, che lo hanno accompagnato lungo trent'anni di guerre, naufragi e inattesi incontri. E tutto questo, con una sola spiegazione possibile, che ci viene dal personaggio che più amo in tutto il poema (e che solo apparentemente è rimasto fuori dal nostro spettacolo), Alcinoo, il re mago, che tutta questa fatica e il dolore riesce a spiegare con le parole più semplice e belle: «perché i posteri avessero il canto».
Francesco Niccolini